Il vino assomiglia alla vita. Si lo so, già scritto e probabilmente l’ho anche citato. E sa di già sentito tra l’altro. Capita infatti di leggere o ascoltare qualcuno che afferma che una determinata cosa – la pittura, l’arte, che so, le piante rampicanti – assomiglia alla vita. Ma cosa c’è di più ineffabile, effimero e misterioso?
Il vino nasce e muore. Di un vino ci s’innamora, altri li si detesta e taluni ci appaiono banali. Ecco, appunto. La verità, talvolta è talmente palese, sotto gli occhi di tutti – nonostante molti si affannino a dimostrare il contrario – che affermandola la si rende banale.
Quindi, scrivere di vino, significa scrivere di vita. E non c’è cosa più difficile per chi voglia cimentarsi con carta e penna. Talvolta capita che vada a rileggermi cose che ho scritto in passato per ricordarmi di un vino, o ribevendo quello stesso vino capire se sono stato capace di raccontarlo nel modo migliore. Ogni volta penso che il tempo che dedico a quest’opera potrei più saggiamente destinarlo ad altro: parole crociate o lista delle cose da fare, visto che qualcosa da fare che mi sfugge per dimenticanza c’è sempre. Scrivere di un vino che si è bevuto oggi, in una particolare situazione e con determinate persone, non ha granché senso in fin dei conti. Perché domani quel vino sarà altro, noi saremo altro, la situazione sarà completamente diversa e le persone con cui lo berremo pure.
C’è una frase di
Jules Chauvet, artigiano vignaiolo francese ormai scomparso, che mi è sempre piaciuta:
“Più studio il vino, più vedo che è complicato e più mi rendo conto che sono lontano dal capirlo”. Più vado avanti e più mi rendo conto che il modo migliore di comunicare il vino è berlo e condividerlo. Allo stesso modo però, so purtroppo che non avrò mai la possibilità di bere un buon bicchier di vino con la gran parte delle persone che leggono ciò che scrivo. Di conseguenza, il massimo che possa fare è essere sincero, cercando di scrivere meno fesserie possibili. Ultimamente quello che più mi diverte è bere con persone che con il vino non hanno nulla a che fare: non lo vendono, non ne scrivono, non lo degustano. Comuni mortali che nella vita si svegliano, lavorano, amano, e accompagnano ai loro pasti una sana bevuta moderata. Persone che sinceramente dicono ciò che pensano senza aver nessuna idea di guide e quant’altro, senza alcun preconcetto, senza dover dimostrare di esser fini degustatori e competenti sommelier. O altrimenti quando mi capita di bere con persone che ne capiscono (che orrenda parola, vedi Chauvet), divertirsi a spararle così come viene avendo innanzi un sacchetto nero che copre la bottiglia, senza alcuna aspettativa. Le aspettative sono uno dei maggiori problemi di un uomo. Ti privano del piacere della scoperta inaspettata, della sorpresa e della conseguente innocente meraviglia. Ed allo stesso tempo sono l’anticamera di possibili delusioni.
Una di queste sere, grazie ad un amico, sono riuscito a mettere tutte queste cose insieme. Persone competenti, sacchetti neri, amici ignari e tante bottiglie. Tra i tanti vini, tutti squisiti a modo loro, quello che più mi ha colpito è stato il
Fiano di Avellino Pietramara 2003, dell’azienda vitivinicola
I Favati.
Si è presentato abbigliato di una veste dorata brillante e limpida. Corteggiava il mio naso con una serie di profumi abbastanza ampi, complessi e ben delineati, che spaziavano dalla frutta bianca e gialla matura a profumi mediterranei d’erbe a note affumicate ben evidenti. Fatto un sorso son capitolato innamorandomene, ritrovando una piena corrispondenza alle premesse, alle grazie che accattivante il vino mi aveva mostrato, accompagnate da un verve minerale ed una freschezza che rendeva il sorso lungo, pulendo il palato che bramava altri incontri d’amore. A chi mi chiedeva di indovinare produttore e annata, ho subito detto Villa Diamante (e chi conosce l’amore che ho per quei vini può capire) a cavallo tra 2003 e 2004. Già, perché che fosse un 2003 lo si poteva intuire dall’opulenza della materia prima, ma la freschezza, l’acidità, e la verve minerale che rendevano il vino leggiadro e equilibrato stupivano. Forse il Fiano di Avellino, di quel torrido 2003, più buono che abbia bevuto.
Milan Kundera in un suo libro ha scritto: “Non si può mai sapere cosa si deve volere perchè si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future. […] L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato”.
Il vino, scrivevo, assomiglia alla vita.
Scrivere di vino è fare una fotografia. Si fissa un attimo nei propri ricordi, e se si ha talento e fortuna, per sempre. Tutto qui, niente di meno, ma soprattutto, niente di più.
I Favati, Sede: Piazza Di Donato 41 - Cesinali (AV)Tel. 0825.666122 e 0825.666898info@cantineifavati.it www.cantineifavati.it Enologo: Vincenzo Mercurio; Ettari: 6 di proprietà. Bottiglie prodotte: 50.000; Vitigni: fiano, aglianico.Mauro Erro - Taccuino di un giovane bevitoreEtichette: Cartier-Bresson, Chauvet, Fiano di Avellino, i Favati, mauro erro, vino